La Svista Fantasmatica dell’ Idea di Patria

a cura di Vincenzo Notaro

L’uomo si ricostruisce una patria sotto qualsiasi lembo di cielo.
(J. G. Fichte)

Non riporterò qui di seguito un sunto dell’avventura chiamata Italia di tipo storicistico, meno che meno topologico. Non mi interessa.
Ciò su cui si indaga non sono nemmeno i fatti,  bensì le dinamiche alla base, i paradgmi comportamentali che caratterizzano la nostra Patria così com’è oggi nel nostro momento storico e la nostra situazione politica, ai fini di offrire uno strumento interpretativo.
Mi interessa fotografare quanto vedo, da un punto di vista laterale e trasversale, sotto questo cielo italiano, ai fini di analizzare i segnali di fumo, polvere di una realtà in fase di crollo, diagnosticare la malattia e ipotizzare una cura.Ma nel senso antico di cura, quia cor urat, ossia che stimola il cuore a pulsare. E quindi a morire, per naturale consumazione.

 1. Chiamare le cose col proprio nome.
Partiamo dall’inizio. Il termine “patria” è un topos immateriale, ideale, la “terra dei padri”, ossia la terra propria, delinea un processo di identificazione del cittadino con la patria, dell’individuo con una comunità, al punto che questo se ne carichi e agisca secondo un interesse di tipo comunitario.
È il luogo nel quale siamo nati, che ci accomuna agli individui a noi prossimi per storia, lingua, tradizione. Quanto questo bacino di prossimità possa essere più o meno vasto, ha assunto nel corso della storia stranissimi metri di esame.
Tant’è che la storia del termine “patria” ci mostra immediatamente un’incongruenza proprio nel concetto di prossimità. Namaziano salutando Roma disse: “Fecisti patriam diversis gentibus unam; profuit iniustis te dominante capi. Dumque offers victis proprii consortia iuris, urbem fecisti quod prius orbis erat”[1].
Questa frase è la prima nella storia a parlare di patria, appare immediata l’idealizzazione del concetto, qualcosa di superiore, sommamente giusto, assoluto, al punto che il bene di tutti i popoli si invera nel piegarsi al “diritto” della “patria”, quella romana, quella dei vincitori, quella che civilizza il mondo.
L’idea di “patria” storicamente si afferma come imposizione di una serie di valori misurati in efficacia dal sol fatto che essi vincono e assoggettano l’altro, ciò che è prossimo… ingoiandone lingua, tradizione e storia. La patria passa cioè sempre e necessariamente per una guerra di espansione.
Ora, quello che è successo specificamente all’Italia 150 anni or sono, è stato né più né meno che un tentativo riuscito di espansione, passato sotto l’idea fantasmatica dell’unione della patria.
Erano 7 stati diversi, tutti con pesanti differenze linguistiche, storiche e di tradizione, basti pensare al fatto che se un milanese oggi sente parlare un palermitano non capisce assolutamente niente, e viceversa. Indicativo a tal riguardo è quanto riportò Farini a Cavour, descrivendo la situazione del Sud Italia: “Altro che Italia! Questa è Africa. I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile”. È con questo spirito d’unione che si è fatta l’Italia.
Il meccanismo è chiarissimo, apparentemente un soggetto presume d’essere portatore di valori superiori, del bene, e va alla volta della civilizzazione dei popoli inferiori[2]. In realtà poi la civilizzazione si concretizza nel depredare  i popoli considerati inferiori. E questo, attenzione, può apparire del tutto naturale, un atto di caccia tipico dell’uomo, secondo il quale la conquista e la sottomissione dell’altro è vitale per sé o per il proprio popolo.
Ma perché mai allora non chiamare l’espansione del potere col proprio nome? Perché chiamarla civilizzazione e unione della patria sotto la stessa bandiera?
Avete mai pensato di unirvi ai beduini dell’Africa? Avete mai pensato di unirvi ai cafoni? Cosa avete in comune con loro? Cosa avete da guadagnarci?
La verità è un’altra: una cosa è il concetto di guerra, radicalmente fondato nell’essere umano, una cosa è l’espansione materialistica; una cosa è combattere, spinti da una forza che va al di là del vincere o del’esser vinti, altra invece è la lotta per l’accumulo del potere.
La guerra metafisica è un processo di affinamento della materia, non di accumulo di materia.
Le guerre che hanno fondato le patrie hanno tutte in sé l’infezione materialistica. Tutte.
Ed è quest’infezione che scorgiamo nell’uso del termine “patria”, nella strategia usata per creare un fantasma. Chiamare le cose con nomi inappropriati genera un appagamento fantasmatico del senso, del significato, con plausibile e ovvio scivolamento in una falla del senso stesso, entro la quale diveniamo attaccabili da qualsiasi sostituto posticcio di quel senso mancante. In questo vuoto che lasciamo per nostra negligenza, chiunque è legittimato a colmare coi suoi propri valori. È l’appagamento stesso del vuoto che richiede che ciò avvenga.
L’abilità storica del potere e di chi lo detiene sta nell’insediare nei vuoti di tal fatta valori che continuino a rimanere incorrisposti, monchi del significato di quanto esprimono, generando così un vortice  infinito, che fa slittare le energie verso mete direzionabili, manipolabili.
In poche parole, se manchiamo l’adempimento del significato al significante, ci svuotiamo e diveniamo marionette, bicchieri vuoti che chiunque, e con qualunque cosa, può riempire.
E il vino che ci offriranno non sarà mai quello raffinato e maturo, mai quello di valore, sarà sempre il vino tinto, l’illusione che sotto cela l’inganno.
C’è un principio fondamentale nel neoplatonismo rinascimentale, quello secondo il quale se a una lira si mette accanto un’altra lira, al suonar dell’una vibra anche l’altra. Vale a dire che i nomi coi quali chiamiamo le cose fanno vibrare il loro significato, e ci rispondono solo se il nome è corrispondente. Se quindi attribuiamo al nome “patria” il significato di “unirsi ai cafoni”, ci deve necessariamente essere qualcosa di disarmonico.
È tale disarmonia che genera lo scivolone, la svista nell’identificazione della terra dei padri con qualcosa di totalmente avulso e sperduto in un mare più grande, ma così tanto più grande da non permettere più a Ulisse (l’individuo) di far ritorno a Itaca (la sua origine).

 2. Il fantasma del bene comune e la degenerazione della Patria in Democrazia.
Il sistema sociale in cui viviamo oggi eredita dalla storia principalmente tre break-points: il crollo dell’Impero Romano, il Feudalesimo e l’Unione di Italia.
Il crollo dell’Impero Romano fu apostrofato da Momigliano come “una caduta senza rumore”; è utilissimo un passo di Elio Lo Cascio nel quale vengono sinteticamente esposte le cause che condussero al crollo dell’Impero Romano d’Occidente: “ Se si vuole riassumere in una formula il senso della morte di Roma, si potrebbe forse dire che l’impero, che aveva saputo far corrispondere un’unica organizzazione politica alla realizzata egemonia della cultura ellenistico-romana nel Mediterraneo, si dissolse nel momento in cui, da una parte, le basi materiali della sua sopravvivenza – le capacità di finanziarsi come organismo unitario – vennero meno per uno squilibrio consistente nelle risorse dell’impero e i costi della centralizzazione, dall’altra parte, venne rotta l’unità culturale mediterranea, con l’emergere delle culture locali, a un certo punto sostenute dalle stesse élites.”
Ecco ciò che noi ereditiamo dalla caduta di Roma: il paradigma di un ampliamento indiscriminato del raggio della patria, che ci spinge nel baratro della sparizione delle origini.
Dal Feudalesimo, invece, ereditiamo il paradigma dei politici di professione, nella figura del Podestà, una figura nata alla fine del XII secolo e vissuta, trasformandosi, fino al Fascismo.
Originariamente il Podestà era un amministratore di professione, forestiero, per evitare coinvolgimenti, che operava in un Comune per un semestre o un anno al massimo; egli veniva chiamato ad amministrare, a garantire il bene comune sotto un determinato compenso, e alla fine del suo mandato veniva sottoposto a verifica dai sindaci.
Noi assistiamo a una degenerazione terrificante della figura del podestà… più avanti vedremo.
A questi due paragigmi va aggiunto quello dell’Unione d’Italia, che legittima e vivifica entrambi i crolli, ossia l’unione quanto più larga possibile e il fantasma del bene comune che si sovrappone e sostituisce il vuoto lasciato dall’indefinitezza degli obblighi contrattuali dei politici odierni.
Il processo di liquefazione della società non ne permette la disgregazione, in questo siamo stati fin troppo arguti! Per disgregare qualcosa c’è bisogno che essa sia solida, come per l’Impero Romano, eppure la troppa argutezza che ci ha condotti dalla Patria unita all’Italia Democratica è presupposto affinché il liquame sociale nel quale sguazziamo oggi vada via via vaporizzandosi.
Se non è chiaro, rischiamo la smaterializzazione della società, uno stadio che nemmeno Bauman osò postulare.
Su base del paradigma dell’ampliamento di raggio si è passati dall’Unione d’Italia all’avvento della Democrazia (Cristiana, tra l’altro), fino alla liquefazione totale delle nostre origini nel processo di cristianizzazione/globalizzazione. Un fatto singolare è che in Italia la prima forma di democrazia sia stata la Democrazia Cristiana. Più su abbiamo detto che uno dei motivi principali che individuano una patria è la comunanza di Tradizione, bene, il filosofo per eccellenza della Tradizione, Julius Evola, in un suo saggio scrisse: “…si sono avuti tentativi di mettere avanti un’interpretazione sfaldata e annacquata del concetto di Tradizione, quasi per soppiantare quello originario e integrale e sostituirlo con un contenuto meno impegnativo e più accomodante, tanto da permettere la continuazione delle routines di una mentalità più o meno conformista. (…) È così che si è avuto, ad esempio, il ripiegamento di persone, attratte in un primo tempo dal concetto di Tradizione, verso un tradizionalismo cattolico. (…) non si sopportava il potenziale di certe idee allo stato inattenuato.”[3]
È la sostituzione dei valori solidi, reali, in valori fantasmatici a implicare l’annacquamento e la progressiva vaporizzazione della società: dalla Tradizione (guerriero-sacerdotale) alla “tradizione cattolica”, dall’amministrazione della cosa pubblica retribuita e verificata, all’inverificabile “bene comune”, motto univoco dei politici odierni.
Orbene, immaginare un procedere storico lineare garantisce un fantasmatico ottimismo. È pura illusione, faciloneria, quando invece considerando la storia così com’è, ciclica, dovremmo cominciare a spaventarci seriamente. Ahimé arriva la fine per ogni cosa. Ahimé arriva il declino. Ahimé i governi crollano.
Ebbene, in una visione ciclica della storia, è facile interpretare questo momento come la cauda draconis di un ciclo. Siamo alla fine. E non è domani, è ora.
Noi viviamo nell’esatto momento in cui avviene il decesso della nostra Patria, nelle fattezze cadaveriche e velenose dell’organismo-democrazia[4].
E allora occupiamoci di come, ora, gira la macchina Italia, la nostra patria che tanto festeggiamo nel suo 150° compleanno, la repubblica democratica fondata sul lavoro, o anche “il paese dei voltagabbana”.
Senza bisogno di fare nomi o esempi specifici, è uguale ovunque, a destra, al centro, a sinistra, ciò che impera è il trasformismo, la mediocrità, l’irresponsabilità.
L’organismo democrazia è morto, e puzza da schifo. La gravità è che tutti hanno una foglia di menta sotto il naso, nessuno sente il fetore della carcassa.
Oggi assistiamo a una masquerade in cui politici di destra confluiscono magicamente al centro, politici di centro saltellano con gioia a destra, politici di sinistra passano all’altra sponda, politici dell’altra sponda entrano nei teatrini della società dello show, attrici e puttane vengono pagate con le nostre tasse per far finta di fare le deputate e smanettare i politici sottobanco, pagnottari e magnacci confluiscono dal mondo della criminalità a quello politico… e via dicendo.
Ora, in questo c’è un preciso paradigma di riferimento, e va pescato con la rete piccola di casa nostra, non è qualcosa di lontano, che ci scarica dalle responsabilità. La Patria è nostra, e non nel senso che è di tutti, ma nel senso che ci appartiene a tutti, intimamente, personalmente, individualmente.
La democrazia è fondata sul voto del cittadino che elegge il proprio rappresentante, quello che, dal suo punto di vista, ha la migliore versione del bene comune.
E allora, riflettiamo, come funzionano a casa vostra le elezioni? Ve lo dico io, con sommo rammarico: casa vostra, nel periodo elettorale, diviene teatro di una peculiare messa in scena, chiamata “porta a porta” (Vespa ci ha fatto un format, sic!), ossia i politici vengono a bussare alle vostre porte – e tutti, da tutte le parti politiche – per chiedere voti, in cambio di favori, più o meno legittimi, più o meno leciti, più o meno sottintesi.
È lampante la contraddizione: discutere del bene comune in un luogo che ha a che fare con la sfera individuale.L’ideologia non resiste. Il programma elettorale non esiste. Vale quanto un politico può fare per noi, singolarmente, o per la nostra famiglia.
Di anno in anno assistiamo ad assurdi spostamenti di voti da un versante all’altro, da un’idea a quella opposta, con una facilità che rasenta il ridicolo.
Ma quanto vale rispetto alla nostra, personale, visione del bene comune?
La foglia di menta, il fantasma che ossessiona la vita psichica della nostra democrazia è il bene comune. Perché è vago, non verificabile, interscambiabile, addirittura mutabile: è il vino tinto per eccellenza.
Ricordo quanto disse il filosofo Aldo Masullo alla presentazione del suo volume Napoli, siccome immobile, faceva più o meno così: “nessuno di noi, allorquando necessita delle istituzioni, si pone il problema di capire quanto e cosa gli è dovuto per legge; il suo primo pensiero è quello di rivolgersi direttamente al politico o amministratore di riferimento, quello cui ha dato il voto”.
Questo comportamento è mafioso. Spostare (e flettere) il principio del bene comune tra le quattro mura private ha tratti taciturni, nascosti, quasi come se si dovesse parlare di cose di cui non è lecito parlare, ci si dovesse stringere in patti segreti, ammiccamenti, accordi, scambio di favori.
Orbene, questo perché accade? Perché abbiamo perduto il metro del fare politico. La boiata del bene comune è la forca alla quale siamo tutti contenti di impiccarci. Per scaricare le responsbilità, perché è più semplice rivolgersi all’amico politico piuttosto che studiare le leggi e far valere i propri diritti, perché se passiamo da sotto qualcuno ce lo deve, e magari se tentiamo legittimamente qualcun altro, di prepotenza, ce lo vieta.
È il bene comune la forma primaria di distrazione mediatica, la foglia di menta sotto il naso che copre il fetore della carcassa, è vasellina (inutile spiegarvi a cosa serve quest’ultima).
Nel Medioevo quando veniva chiamato un Potestà ad amministrare una comunità, egli veniva esaminato, doveva presentarsi e stabilire il suo onorario. Pensateci, è molto più razionale: il politico deve dimostrare quali sono le sue capacità di amministrare una comunità, deve dire chiaramente “il mio operato costa x euro al mese, poiché col mio lavoro farò guadagnare alla comunità y euro al mese”, poi si passa alle valutazioni. Perché mai nessuno mette le cose in chiaro così? Parlano del bene comune invece! Non di un lavoro che gli viene regolarmente retribuito e che li obbliga in quanto lavoratori a dover espletare il proprio compito!
Qual è il compito del vostro politico di riferimento? Lo sapete? Sapete perché lo avete votato? Cosa sta facendo ora? Avete strumenti per valutare se lo sta facendo appropriatamente? Li avete mai chiesti? E se sbaglia chi paga poi? Una penale, come in un contratto, andrebbe contemplata?
Un amico fraterno, che fa di nome Spartaco, scrive nel suo Elogio dell’imbecille che si fece Primo Ministro: “Bisognerebbe essere fuori dalla realtà come un politico di professione o come un idiota per credere che le bande criminali che albergano nei parlamenti possano occuparsi del bene comune”.
Ma il caro Spartaco è troppo nobile di cuore, non è cosciente che il popolo della Patria Italiana se ne sta tranquillo e beato a sguazzare nell’idea distrattiva che i politici stiano facendo il bene comune, e nella mafiosa certezza che essi faranno il loro bene in caso di bisogno. Amen.
Dai taciti accordi presi nel privato delle proprie case a quelli del magnamagna imperante, basta pochissimo, anzi ciò che accade nelle nostre case prepara il terreno fertile nel quale seminare illeciti di proporzioni via via più estese. Si chiama sudditanza, ed è quanto comporta la logica del “favore”.
Basti pensare a come in campania Cutolo sia riuscito ad erigere l’impero della Camorra, il “banditismo urbano mafioso”, al proposito Isaia Sales scrive: “Con Cutolo il crimine si è quasi ideologizzato, è diventato occasione veloce di ricchezza, ma anche promozione sociale di massa, occasione di lavoro e di riuscita per un’enorme massa di giovani dei grandi e medi agglomerati della campania. (…) Cutolo cominciò a proteggere in carcere i detenuti giovani o poco esperti del mond carcerario, o in condizioni economiche tali da non consentire il ricorso allo spaccio ed al vitto indipendente da quello dell’Amministrazione: ciò determinava un rapporto di gratitudine e quindi di sudditanza psicologica tra Cutolo e questi giovani deviati, provenienti per la stragrande maggioranza da ambienti dove le interazioni psicologiche sono certo più elementari.”[5].
È evidente che non siamo più che “giovani deviati” se diamo asilo ad anomalie come il “porta a porta”. Ed è altresì evidente che certe storture sono connaturate agli ambienti nei quali crescono, chiudo pertanto questa parte, prima di somministrare la cura, con una citazione di Carmelo Bene: “L’unica forma di governo che garantisce qualcosa, cos’è? La democrazia, senz’altro, paradossalmente (…) ma mi domando, cosa garantisce una democrazia che una dittatura non possa garantire? Certo, garantisce qualcosa. (…) Garantisce la invivibilità della vita. Non risolve la vita! Chi sceglie la democrazia, chi sceglie la libertà sceglie il deserto. (…) La democrazia non è niente, è mera demagogia.”[6].

3. L’Unione al di là della Patria: il problema dell’altro.  
Eppure c’è un senso autentico nel concetto di Patria, e va ricercato oltre i margini della storia, al di là della decadenza politica cui assistiamo oggi, e fuori anche dalle asprezze speculative filosofiche o psicologiche. La Patria è ciò che mi lega all’altro, ciò che mi stringe in fratellanza, ciò che, autenticamente, mi fa vivere con l’altro, mi unisce all’altro per passione, per elettività, per lo stesso sangue che scorre nelle nostre stesse vene. Non prossimità, non finte tradizioni in comune, ma sangue.
E l’unione è un atto così radicale e vitale, così tanto pratico, da non poter essere ingabbiato in un topos immateriale quale è la Patria: l’altro è ciò che mi fa lasciare la mia Patria e mi conduce verso una Nuova Patria, dove i padri diveniamo io e il mio altro. Dove, a dispetto dei patriottismi e dei nazionalismi, il sangue di mescola e la razza si rinvigorisce.
L’altro è un valore che si deve concedere a se stessi, e senza sconti, per esplorazione culturale e spirituale. Rifondare la Patria, svincolarci dai padri, divenire noi stessi padri, passa per l’esplorazione dell’altro, persino introspettiva (Je est un autre – Rimbaud). L’altro è la meta senza-meta, poiché sfugge a noi stessi, e il “cammino” (spirituale/culturale/artistico) implica che “andare è la meta”.
Le ricadute materialistiche e strategiche delle varie Patrie nel corso della storia sono emblematicamente rappresentate da Hitler: egli, un uomo basso e coi capelli scuri, non avrebbe mai potuto unire i Tedeschi sotto l’ideale della razza pura Germanica, bionda e alta di statura (chi gli avrebbe creduto?), ma usò il collante strategico dell’esclusione, del nemico. Fece unire i suoi tedeschi non per un ideale, ma contro qualcuno.
Questa è la svista somma: l’esclusione, un mattone in più sulla Torre di Babele che rischia di appesantire e far crollare tutto in rovina.
Aprirsi al proprio altro è essere inclusivi, in quanto riconoscenti la propria e l’altrui esclusività.
Contrariamente, ci si cristallizza in assolutismi fantasmatici che conducono allo scempio odierno.
Riporto le parole del filosofo Slavoj Žižek, portatore di idee radicalmente critiche sui tempi bui che viviamo, un allarme a non incorrere in sviste:”Tutti conosciamo il detto di Lacan secondo il quale l’inconscio è strutturato come un linguaggio. Il mio amico marxista Mladen Dolar ha teorizzato che l’inconscio dell’Europa ha la stessa struttura dei Balcani. La cosiddetta Europa civilizzata si è scontrata nei Balcani con il suo opposto osceno. I Balcani sono l’inconscio più segreto dell’Europa. Da qui nasce la questione da me più volte affrontata: dove cominciano i Balcani. La risposta è sempre la stessa: nel giardino del vicino. Per i serbi iniziano in Albania e così via fino ad arrivare alla perfetta Gran Bretagna per la quale i Balcani sono l’intero continente europeo… Kusturica con Underground lo conferma. Il film non presenta i Balcani, ma la loro immagine fantasmatica, un luogo dove la gente beve, fa sesso, mangia, uccide… è la “fantasia” occidentale dei Balcani. Kusturica soddisfa la richiesta di “primitivismo” dello spettatore occidentale. Atteggiamento che ritroviamo, generalizzato, tra gli stessi serbi, bosniaci e anche sloveni. Anche il nazionalismo serbo sembra uno show teatrale. Il sociologo tedesco Ulrich Beck lo definirebbe “nazionalismo riflessivo”. L’occidente “civilizzato” si è ostinato per anni a prendere sul serio la stupida storia delle passioni etniche; mostrandosi così incapace di capire cos’era veramente in atto nei Balcani: un processo politico, un conflitto di potere.”[7].
È importante capire a questo punto che l’altro porta in sé una carica di sospetto e necessita un reale atto di coraggio e di apertura, che non potrà mai essere replicato più e più volte, su scale sempre più larghe, e questo vale a dire che l’unione è una questione intima, di pochi numeri.
Al di là del “processo politico” cui fa riferimento Žižek, vale la pena soffermarsi su un processo politico ben più alla radice, ossia lo sperdersi dell’identità locale nel globale, con distruttive ripercussioni quali pressapochismo, non partecipazione, immobilità. Il passaggio, cioè, dai pochi numeri autenticamente legati dal sangue e dall’elettività, ai grandi numeri legati dai topoi immateriali, fantasmatici e interscambiabili.
Questo “processo politico” culmina nella svendita dei poteri dello Stato, nelle compravendite del Mercato, che per sua natura media, livella, appiattisce fino a produrre l’annichilente “buono per tutti” (il bene comune) che diviene pericolosamente venduto come “buono per sè”. A quel punto l’individuo, assumendo su di sé il valore della mediocrità, smette di esistere: l’identità viene dequalificata, fino al suo annientamento.
Ciò implica l’impossibilità del “confronto” fra identità diverse e il totale blocco della cultura, della politica, del cammino.E chi non cammina è morto.
Per dirla con Spengler la nostra civiltà “si irrigidisce” e muore, o per dirla con Bauman “si liquefa”, – e come abbiamo visto, nel garantismo democratico, addirittura evapora -, per la svista di guardare con raggio sempre più ampio (dal locale al globale), sperdendo, svendendo la concentrazione sull’individualità, l’unicità di ognuno messa a confronto/conflitto, autentico e produttivo, con l’altro.
E questa svista, attenti, è voluta dai poteri, essi sguazzano nell’annacquamento.
Non pensate che nei processi storici tutto accada per caso, per fato, non è così: sotto una svista c’è una volontà colposa. E va affrontata, individuata, neutralizzata e abbattuta.
Quel che sta accadendo è esattamente quando dice Bauman in una intervista:”Lo Stato si priva di una sempre più grande dose della sua potenza autarchica, e quindi diventa incapace di assumersi l’insieme delle sue funzioni. Lo Stato, per dovere, ma con l’entusiasmo degno di una causa migliore, delega i propri compiti, anzi lì dà “in affitto” alle forze di mercato, che sono anonime, prive di un volto. Di conseguenza i compiti che sono vitali per il funzionamenti e il futuro della società sfuggono alla supervisione della politica e quindi a ogni controllo democratico. Il risultato: si affievolisce il senso di comunità e si frantuma la solidarietà sociale. Se non fosse per la paura degli immigrati e dei terroristi, l’idea stessa dello Stato come un bene comune e una comunità di cittadini sarebbe fallita“.
Potete prendere questo passo e applicarlo a mò di paradigma a tutti gli scempi e sviste colpose cui assistiamo oggi: nell’informazione (Bruno Vespa e amenità simili), nella ricerca (Gelmini e amenità simili), nell’arte (Cattelan e amenità simili), nella spiritualità (Ratzinger e orrori vari).
Per queste cause, interne ed esterne, mai come oggi, ahimé, trovo superflua l’idea di Patria.
Vanno ricostruiti i tessuti culturali-sociali con un processo bottom up, una rifocalizzazione sulle identità, dal basso, dai piccoli numeri.
Torniamo alle tribù. Torniamo all’in/contro tra identità diverse.
Dopo, magari, penseremo al resto, e senza sconti.


[1] Hai fatto una sola patria di popoli diversi; fu un beneficio per gli incivili cadere sotto il tuo dominio. E offrendo ai vinti la partecipazione al tuo diritto, hai reso città ciò che prima era mondo

[2] Il concetto di superiore e inferiore, di legittimazione del buono e del cattivo è lucidamente spiegato da Nietzsche in Genealogia della Morale.

[3] Julius Evola, Che cos’è la “Tradizione”, in L’Arco e la clava Ed. Mediterranee, Roma, 2000; originariamente pubblicato in Il Conciliatore – giugno 1971.

[4]    Va precisato che la democrazia è interamente e costitutivamente una pianta avvelenata, essa è fondata sull’abbassamento e la mediazione del piacere teso ad accontentare un po’ tutti. Basta girare per le Terme di Caracalla a Roma e poi per le palestre dei nostri centri commerciali… Basta pensare al fatto che noi oggi non riusciamo a immaginare come gli Egizi abbiamo potuto realizzare le Piramidi… per farci un’idea del nostro progresso. Basta pensare al fatto che dall’America oggi ci arriva notizia che lo stress allunga la vita! Certo, annacquandola. Sperdendone l’intensità in un’inutile vita lunga cent’anni. Nietzsche parlava di pallore democratico, pare inutile aggiungere altro. Certo qualcuno potrebbe addurre a difesa della democrazia il fattore di protezione della comunità intera, dei diritti di tutti, ma cosa ce ne facciamo della mediocrità? Quanto conta sopravvivere? Non è meglio vivere del tutto o morire del tutto? La vita è guerra, perché non assumercene la responsabilità di viverla? E questo non significa illudersi di vivere da eroi, vuol dire aderire pienamente alla vita che implica il principio “mors tua, vita mea”. Per nutrirmi uccido. Per il mio bene perisce il bene di qualcun altro. Questo principio è alla base del concetto di sacrificio, ossia il produrre cose sacre (cfr. W. Benjamin), ciò che viene sacrificato viene liberato in una causa più grande (cfr. A. Crowley). Ed è questa assenza di valori guerriero-sacerdotali, iniziatici, che Evola criticava, per. es., al Fascismo. Ed è quindi allora un problema del mondo moderno, non è preferibile la tirannia alla democrazia, il regime alla repubblica, ma è da considerare amaramente lo stato di deterioramento in cui riversa il mondo odierno, nei suoi pallidi piaceri, la sua svilita libertà, la sua idea di progresso ottimistico, la sua assoluta falsità.

[5] Osservatorio sulla Camorra, 5 – 1/1987, edito da Fondazione Colasanto.

[6] Bene Contro Tutti al Maurizio Costanzo Show, 1994

[7] Tratto da un’intervista di Elisabetta D’Erme a Slavoj Žižek su Il godimento come fattore politico.

angelopieroni

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