Quando la nostra disperazione viene veicolata.Dividi et imperaL’odio come parte integrante di un sistema di controllo delle masse

Quando la nostra disperazione viene veicolata.Dividi et imperaL’odio come parte integrante di un sistema di controllo delle masse

a cura di Angelo Pieroni

I primi soccorsi dopo la strage in norvegia

Dividi et impera”[1], ecco il motto che accompagnava la scelta della politica nel territorio italico dal governo di Roma. Antico ma sempre in auge, soprattutto se a farne le spese sono masse che già sono state in parte indottrinate o preparate a ricevere tale messaggio.
La strage norvegese è una tragedia annunciata. Abbiamo dato spazio, come non succedeva da decenni, all’idea che ogni male che ci affligge deriva dall’altro, la nostra colpa non esiste, rimane l’ultima scelta per identificare le nostre disgrazie.
È sempre stato più facile per tutti, e soprattutto per il potere costituito, identificare nell’altro la colpa di ciò che succede. I nostri cambiamenti purtroppo, e parlo di quelli sociali, culturali, economici, sono tutti derivanti da una politica di sprechi e un consumismo senza criterio, portato all’esasperazione per gli ovvi motivi che spingono quest’idea.
L’arricchimento, che in senso generale non ha nessun riferimento reale con la massa. La realtà, e ce la troviamo davanti ogni giorno, è che il vero ricco è colui che sfrutta il metodo non chi ne subisce gli effetti.
Eppure tutto è davanti a noi, le equazioni che ci si presentano sono di primo grado, x sta ad y come noi stiamo ad un sistema che ci vede sconfitti affaticati per stare dietro ad un regime che ci vuole tutti soddisfatti nell’appartenenza, in un apparenza che non ha niente di reale.

Ku Klux Klan adunata

Oggi però dobbiamo fare i conti anche con le conseguenze, ed allora? Cosa è più semplice per chiunque di noi, quale è la scelta più ovvia per poter identificare il malessere di questa crisi enorme che colpisce un sistema che non potrà mai portarci lontano?
Infine chi è il colpevole?
L’”Altro”, chi se non loro, chi non è uguale, chi non è simile, chi non è identificabile, chi non la pensa come noi, chi non crede come noi, chi sceglie di essere come si sente.
Ecco risolta l’equazione in realtà l’atro identifica tutto ciò che noi odiamo di questo malessere, perché non lo comprendiamo, perché  non riusciamo a capire chi sia; l’altro, quello che rimane e sarà sempre diverso proprio perché capro espiatorio dei nostri errori. Fautore delle nostre paure. Identificazione del personaggio che può mettere in discussione la nostra intelligenza, la nostra capacità di essere protagonista nella NOSTRA  società. Non vi dice niente questo?
Non vi ricorda niente questa caccia allo straniero, sia essa reale che mediatica?
Ecco il risultato lo abbiamo sui nostri schermi oggi, attraverso quelle immagini crude e dure che raffigurano i tanti sacchi che racchiudono corpi di giovani che ancora dovevano vivere, sorridere, identificarsi, ma che si sentivano parte di un idea. La scena sembra quella di un filmaccio hollywoodiano di quarta categoria dove il super assassino rincorre le vittime con mortale precisione mentre tutti fuggono in preda al panico.

Ku Klux Klan marcia nella East Main Street in Ashland nel 1920

Noi, noi come società, come popolo del non voto, come gelatinosa massa di indifferenza abbiamo armato la mano di questo maniaco, dandogli le giustificazioni per fare del suo atto un gesto eroico, come se avessimo suggerito a lui che l’unica maniera di risolvere tutto sarebbe stato il cammino sulla strada del grande mito dei guerrieri. Quella che vede i vincitori nei Campi Elisi[2] se non nel  Valhalla[3].
Una schiera di eroi pupazzi che si arrendono alle forze dell’ordine dopo aver ucciso 90 ragazzi innocenti, proprio perché hanno da assolvere ancora al loro compito. Essere l’esempio che innesca la follia di questi  individui che fino ad oggi sono vissuti ai margini della società perchè rifiutati. Oggi loro si sentono forti della nostra debolezza, della nostra accettazione.
Ricordiamoci che ad ogni tipo di attentato da parte di una fazione esterna al potere di uno stato noi abbiamo scatenato, in nome di una giustizia più o meno divina, guerre vere e proprie, abbiamo giustificato invasioni di territori e appropriazioni più o meno debite di ricchezze che appartenevano ad altri.
Vogliamo ancora dare spazio a questo modo di pensare? Questa è la domanda che dobbiamo farci.
O dobbiamo cominciare a capire che questo gioco di potere deve finire.
Sia chiaro che il mio non vuol essere un discorso legato ad una politica o ad un’altra, ma al buon senso delle persone, il popolo di queste nazioni che ogni giorno si vede portare via una parte di dignità, sicurezza, tranquillità, armonia ed attaccamento ai valori che hanno fatto delle nostre culture qualcosa di cui andar fieri.
Non mi dilungo di più voglio solo ricordare a tutti che a volte basta pensare, senza filtri cercando le risposte senza le rabbie della nostra disperazione, perché essa fa parte di noi non del nostro vivere sociale e se vogliamo le soluzioni dobbiamo cercarle nelle risposte semplici senza farci prendere da questa spirale di odio che non ci appartiene. A volte ci distraggono dai veri problemi proprio cosi, dandoci un obbiettivo diverso dove sfogare le nostre rabbie, penso che non ci sia di più da aggiungere.

Un ultimo saluto a quei ragazzi che non hanno avuto scelta, con l’unico rimpianto di non aver potuto fare niente per poterli mettere al sicuro, come avrebbe dovuto fare ogni società che si rispetti.


[1] In politica e sociologia si usa per definire una strategia finalizzata al mantenimento di un territorio e/o di una popolazione, dividendo e frammentando il potere dell’opposizione in modo che non possa riunirsi contro un obiettivo comune. In realtà, questa strategia contribuisce ad evitare che una serie di piccole entità, ciascuna titolare di una quantità di potere, possano unirsi, formando un solo centro di potere, una nuova e unica entità più rilevante e pericolosa. Per evitare ciò, il potere centrale tende a dividere e a creare dissapori tra le fazioni, in modo che quest’ultime non trovino mai la possibilità di unirsi contro di esso.
Questa tecnica permette quindi ad un potere centrale, che può essere un governo dispotico, o un governatorato coloniale-imperialista, numericamente modesto, di governare e dominare su una popolazione sensibilmente più numerosa.
Elemento tipico di questa tecnica consiste nel creare o alimentare le faide e i dissapori tra le fazioni autoctone: facendo ciò si contribuisce all’indebolimento e al successivo deterioramento dei rapporti tra le fazioni o le tribù dominate, rendendo impossibili eventuali alleanze o coalizioni tra esse che potrebbero mettere in discussione il potere dominante. Altra caratteristica è il concedere aiuti e promuovere eventuali tendenze a rendersi disponibile e fedele al dominatore. Questa tecnica è applicabile solo se accompagnata da abilità e conoscenze politiche nei suoi campi specifici: scienze politiche, storia politica e psicologia generale e nella fattispecie politica.
Ove la tecnica del “divide et impera” risulta applicabile rende risultati soddisfacenti, soprattutto nel caso di società frammentate e frammentarie, coinvolte già in uno scenario d’equilibrio tra le tribù o fazioni interne.
Tale tecnica è stata applicata in particolar modo per l’amministrazione dei grandi imperi, che grazie ad essa riuscirono a controllare territori con forze armate esigue.

[2] I Campi Elisi, o Eliseo  talvolta identificati con le Isole dei beati o Isole Fortunate —, sono, secondo la mitologia greca e romana, il luogo nel quale dimoravano dopo la morte le anime di coloro che erano amati dagli dèi. Nell’Eneide di Virgilio, Enea, dopo la sua fuga da Troia, arriva in Campania, a Cuma, per consultare la Sibilla. Ella lo accompagna negli Elisi, dove incontra suo padre Anchise, deceduto da poco. Nell’Odissea, invece, Omero ricorda che i Campi Elisi saranno la sorte di Menelao, amato appunto dagli dèi poiché genero di Zeus e in quanto marito di Elena, dandoci anche una descrizione del luogo (libro IV, 702-712). Un luogo in cui per i mortali la vita è bellissima, mai toccata da neve e pioggia, né dal freddo, ma sempre soffi di zeffiro rinfrescanti per gli uomini, mandati dall’Oceano.

[3] Nella mitologia norrena, Valhalla (o anche Valhöll e Walhalla) è uno dei palazzi dell’Ásgarðr e residenza dei morti gloriosamente in battaglia, gli einherjar; lo stesso termine significa, appunto, “sala dei morti in battaglia” (“Val”, “morto in battaglia”, e “halla”, da cui deriva l’inglese moderno “hall”, salone, entrata, “sala”).

Secondo la tradizione chi muore da eroe viene scortato dalle Valchirie nel Valhalla dove viene accolto da Bragi.
Il Valhalla è descritto come un’enorme sala con 540 porte, muri fatti con le lance dei guerrieri più valorosi, tetto fatto di scudi di oro su cui sono raffigurate scene di guerra e panche ricoperte di armature, gli arredi interni costituiti da vesti dei combattenti. Si dice che vi sia posto per chiunque venga scelto e sia più semplice trovare un posto che entrarvi.
Prima di varcare i cancelli del Valhalla, sorvegliati da un lupo e da un’aquila, i soldati devono attraversare il fiume Thund.
I guerrieri del Valhalla assisteranno Odino nel Ragnarök, lo scontro finale contro i Giganti. Per prepararsi alla lotta ogni giorno combattono nelle pianure di Ásgarðr, organizzando giostre cavalleresche, e ogni sera le ferite si rimarginano, le membra si ricompongono e i guerrieri ritornano nel Valhalla per banchettare con carne di cinghiale e bere idromele sgorgante dalle poppe della capra Heidrunn, oltre alle coppe di birra distribuite dalle Valchirie, aventi nomi propiziatori, quali Hild (“guerriera”) e Hrist (“colei che fa tremare”), mentre Odino dall’alto della sua magnificenza, si nutre solo di un vino speciale.

angelopieroni

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